Descrivere il Super Bowl? È una parola, anzi due, a dispetto dell’abitudine italiana, errata, di scriverlo tutto attaccato e con la b minuscola. Non bastano i vocaboli e non bastano le immagini e però bisogna farlo, a beneficio di chi non abbia mai avuto la fortuna di esserci, una fortuna benedetta e maledetta al tempo stesso, perché ti fa vivere qualcosa di unico, ma te lo fa anche rimpiangere e desiderare.

 

Prima di tutto, per non dare nulla per scontato: il Super Bowl, o SB, è la finale del campionato NFL, la massima espressione mondiale del football americano. La NFL* nel 2019 festeggerà la centesima stagione e ce lo farà sapere in maniera asfissiante, ma quello del 3 febbraio è il Super Bowl numero 53 - LIII nei numeri romani scelti per dare solennità all’evento - e allora cosa non quadra? Semplice: fino alla stagione dell’autunno 1965 le finali si chiamavano banalmente NFL Championship Game e chi le ha vinte dal 1933 - primo anno in cui c’è stata una sfida per il titolo, mentre prima lo portava a casa chi chiudeva in testa la regular season - al 17 dicembre 1965 era NFL Champion e… basta. Dal 1966 in poi è Super Bowl Champion, ed è come se la storia precedente fosse stata cancellata, o meglio messa da parte. Per dire: i Philadelphia Eagles erano stati campioni NFL tre volte, nel 1948, 1949 e 1960, con giocatori memorabili tuttora venerati, ma quando lo scorso anno hanno conquistato il loro primo Super Bowl è venuto giù il cielo, perché conta solo quanto avvenuto nella cosiddetta era televisiva.

media Nick Foles, QB degli Eagles campioni in carica

Il bello è che il gigantesco evento dei giorni nostri non era tale all’inizio, e anzi - tenetevi forte - nemmeno si chiamava Super Bowl, nome retroattivo dato alle prime due sfide tra squadre campioni della NFL e della AFL. AFL, ovvero la lega concorrente sorta nel 1960 con lo scopo di rivaleggiare con quella più antica, e che ottenne l’obiettivo: poco alla volta un gioco più spettacolare, contratti alti e la stabilizzazione dopo inizi precari resero la AFL così popolare da portare la NFL a riconoscerla come (quasi) paritaria e organizzare dunque, dopo una regular season separata, una finale comune. Dal 1970 la AFL divenne parte della NFL, come AFC (American Football Conference) e il calendario divenne comune. Ma - appunto - le prime due partite vennero chiamate Super Bowl (I e II) solo al terzo anno di accordo, prendendo spunto dal nomignolo usato durante le telecronache e originato dall’assonanza con una pallina di gomma (Super Ball) con cui giocava la figlia di Lamar Hunt, proprietario dei Dallas Texans poi diventati Kansas City Chiefs e tra i fondatori della AFL stessa.

L’evento, ecco. Immenso, esagerato, assurdo, per come chi lo gestisce e chi lo vive partecipa alla sua costruzione, consapevole di andare oltre i limiti del buon gusto e della misura e però felice di farlo. La crescita è stata davvero esponenziale su tutti i fronti, autoalimentata: a ogni edizione è aumentato il clamore che a sua volta ha richiamato attenzione maggiore un maggior numero di giornalisti ed entità interessate, in un ciclo apparentemente senza fine. Eppure una fine ci può essere, la possibile saturazione economica e sociale, in un’America che sta acquisendo un numero di residenti di nazionalità più interessate al calcio, anzi al fùtbol, che alla NFL: ed è per questo che ogni tanto si parla (vaneggia, per noi puristi che vorremmo vedere le leghe americane SOLO in America) di un Super Bowl ospitato in futuro a Londra e chissà, un giorno, anche a Pechino, un giorno in cui speriamo di non esserci più.

  media Tom Brady al media day

Arrivi nella città che lo ospita, e capisci subito. Il Super Bowl è prima di tutto colore: il colore, o i colori, scelti dal comitato organizzatore, e tendenzialmente omogenei al luogo. Caldi, pastello, vivaci a Miami e in Florida, giallo-viola-verde a New Orleans a imitare le tonalità del carnevale, blu e azzurri a Minneapolis per assonanza con neve e ghiaccio invernali, spesso rossi altrove, magari in Texas o ad Atlanta, dove ad esempio c’è la sede mondiale della Coca-Cola, che però non è tra gli sponsor della NFL, al contrario della Pepsi, con vari marchi. E questo colore ti segue dappertutto, lo vedi sui cartelli ufficiali che ti guidano ai vari eventi, ti ricordano dove sei e perché sei lì. Anche in questo la NFL ha aperto la strada alle altre leghe: fino a una ventina di anni fa, ad esempio, le singole edizioni dei Mondiali di calcio avevano un logo ma non un colore specifico che facesse da guida e avvolgessero tifosi e addetti ai lavori nella rassicurante sensazione di essere in una casa temporanea.

Una casa in cui però ogni porta che apri ti svela qualcosa di nuovo e sorprendente, una rincorsa continua di idee: l’autore di questo articolo ha visto dal vivo Super Bowl in quattro decadi ed è impressionante vedere come si cerchi sempre, in un contesto che di base sarebbe monotono perché vanno rispettati i ritmi delle due finaliste, di innovare. Nell’offerta di svago per il pubblico, ad esempio, la celebre NFL Experience che è un parco di divertimenti a tema che apre sette e più giorni prima della gara. Fino al mercoledì-giovedì è frequentato quasi solo da residenti, poi cominciano ad arrivare i tifosi delle squadre e la miscela di colore  impazzisce, pur acquisendo i toni prevalenti di - questa settimana - Los Angeles Rams e New England Patriots. E cosa è la NFL Experience se non la progenitrice di tutte le FanZone dei grandi eventi calcistici? Anche qui, dunque, NFL all’avanguardia, pure nel prendere in giro se stessa: in gergo, si definisce armchair quarterback, ovvero quarterback da poltrona, chiunque spari sentenze dal calduccio della propria casa, e allora un giorno uno sponsor ha predisposto, alla Experience, una… poltrona semovibile dalla quale il volontario di turno doveva fare il quarterback vero e proprio, ovvero lanciare il pallone in un bersaglio. Un navigare costante tra seriosità e ironia che percorre l’intera settimana del Super Bowl, e del quale il singolo visitatore, anche se addetto ai lavori, non riesce a rendersi conto: per ogni evento ufficiale - e sono decine al giorno - ci sono quelli paralleli, quelli che approfittano della partita e la girano a proprio vantaggio. Le feste di VIP e giocatori (di altre squadre) in locali privati o magari le vendite speciali di televisori nei megastore specializzati, spesso pubblicizzate con giri di parole che non menzionano la parola Super Bowl perché chi non è sponsor ufficiale non può usarla per fare promozione.

media

L’assurdo è che sia i tifosi sia gli addetti ai lavori attraversano la settimana in uno stato di progressivo coinvolgimento nei colori, nei suoi e negli odori (inevitabilmente, di cibo) del SB, e si svegliano poi la domenica mattina prendendosi un ceffone: quello metaforico di chi si guarda intorno e scopre che dal calendario ufficiale della NFL sono spariti tutti gli eventi collaterali e resta solo quella parola, SUPER BOWL LIII AT MERCEDES-BENZ STADIUM. Sei solo, finalmente, di fronte al motivo reale per cui sei lì. Sei solo, ma come te si sentono le 70-80.000 persone che andranno allo stadio, ognuna con una testa propria e una voglia diversa di vivere la partita. Che inizia alle 18.30 della costa est degli USA, e saranno dunque le 18.30 di Atlanta: la mattinata si trascina, prendi qualcosa a uno dei tanti tailgate party - le mangiate del prepartita, organizzate nei dintorni dello stadio ma non solo, ovviamente, anche perché al Super Bowl è vietato farle nei parcheggi - e poi cancelli tutto il resto e vai, ti metti in coda, cominci a sentire intorno a te l’elettricità, pazienti ai lunghi controlli di sicurezza, sali le scale, vieni piacevolmente soffocato dalle voci dello speaker, dalla musica, dal brusio crescente degli altri, guardi l’ora e quando manca circa mezz’ora al calcio d’inizio in realtà sai che parte tutto.

All’autore di questo articolo impressiona in particolare l’ingresso ufficiale delle squadre: ‘Ladies and gentlemen, the AFC Champions, the New England Patriots’ (e versione NFC, con i Los Angeles Rams) e i giocatori entrano quasi tutti di corsa, sprintando e saltando verso il centro del campo poi la propria linea laterale, percepisci che loro - molto più di te - non vedevano l’ora di essere lì e scaricare 14 giorni di preparazione, tensione, attesa. Una volta venivano presentati uno alla volta i giocatori della difesa di una squadra e dell’attacco dell’altra, ma la NFL si è accorta che ai nomi dei meno noti cadeva il tono e allora dentro tutti assieme, e sarà che il football è uno sport aggressivo ma sembra davvero di vedere la carica di un reparto pronto ad entrare in battaglia. Molto più impressionante del passo misurato, pacato, con bambino tenuto per mano, delle squadre di calcio, che trasmettono tutt’altra sensazione: il football non prevede bambini, non prevede (fortunatamente) madrine o scemenze simili, ha solo l’essenziale, ed è un bene. Dopo una attesa infinita, dopo il colore, dopo gli eventi, dopo tutto il resto, è il momento del Super Bowl, e niente altro conta.

 

*Si prega di essere consapevoli del fatto che questo link vi rimanderà al sito scommesse