Locos por el Futbol torna oggi a casa. Facciamo un salto in Sudamerica per iniziare il mese di aprile.

ARGENTINA

Quasi vent’anni fa. Il 4 marzo del 1999, la dottoressa Liliana Ripoll, l’equivalente del nostro curatore fallimentare, di fronte a telecamere e microfoni pronuncia una frase a suo modo storica: “el Racing Club ha dejado de existir”.

Il cuore di tante persone si è bloccato. Perché alle sconfitte sportive si può sempre reagire e il Racing nell’ultimo quarto di secolo aveva certamente più visto altri sollevare trofei. Ma la fede era rimasta intatta, se non più intensa, perché nella sofferenza si cementano amicizie e fratellanze. Quelle sette parole volevano dire fine di tutto, una vera condanna a morte.

Ma la principale caratteristica della società argentina, fornitrice a dosi massicce di anime controculturali, è la rebeldia. L’argentino in genere ha uno spirito ribelle. La settimana successiva all’annuncio della Ripoll, lo stadio Presidente Peron, la casa del Racing, si è riempito di 45mila anime ribelli: hanno cantato come se la loro squadre fosse regolarmente in campo come accadeva in ogni weekend prima di quelle maledette sette parole. Cori appassionati, iniziati dalla Guardia Imperial, lo storico gruppo di hinchas del club di Avellaneda, e ripresi e amplificati da tutto il resto dello stadio bianco-celeste. Scendevano copiose anche le lacrime, lacrime di rabbia, lacrime di orgoglio. Il Racing doveva tornare a vivere, perché il Racing erano loro. Era (parte) della loro vita.

E il Racing, alla fine è tornato a vivere, e a soffrire. Come sempre.

“Dale dale dale Academia!”

L’Academia, l’Acade, il nomignolo del club in ricordo di un’epoca passata dove la squadra faceva incetta di titoli mostrando il lato esteticamente più apprezzabile del calcio argentino.

Il 27 dicembre del 2001 gli stadi pieni di anime bianco-celeste erano due. Due, il José Amalfitani di Liniers e il Cilindro. Al Cilindro anche stavolta non c’era in campo il Racing, ma stavolta perché era impegnato proprio in casa del Velez: si giocava la partita decisiva per il titolo. La squadra bianco-celeste avrebbe festeggiato in quei due stadi, e a condurla alla vittoria c’era anche un giovane centravanti cresciuto nelle giovanili: Diego Alberto Milito. L’inizio di una carriera che lo porterà fino al trionfo della notte di Madrid, protagonista di una doppietta nella finale di Champions League 2010. Dopo il passaggio in nerazzurro il centravanti aveva sul piatto offerta plurimilionarie provenienti dalla penisola arabica, ma un solo pensiero in testa: “Volver”. Tornare all’Academia, e con ancora testa e muscoli in ordine. Perché alla squadra che ti ha dato la vita, non devi mai metterti in condizione di diventare un peso.

Il fatto che abbia vinto, ancora, nel 2014, il campionato, con partite da protagonista (e il Racing non vinceva dal momento della sua dipartita in Europa), non racconta nulla però rispetto al suo modo con cui ha ri-approcciato al suo ambiente. Vado sul personale: in una delle mie visite al Cilindro, poco dopo il ritorno del Principe, ricordo la frase di un responsabile dell’ufficio stampa: “Milito, con i suoi modi, con il suo esempio ha cambiato la testa di questo club.”

Smessi i pantaloncini bianco-celesti si è buttato con quella testa lì nel lavoro di dirigente, e ha costruito una squadra che nell’ultimo week end è tornata a vincere il campionato, puntando su un tecnico unico come il “Chacho” Coudet che ha dimostrato come il periodo vissuto sulla panchina del Rosario Central (tra il 2015 e il 2016 il miglior futbol del Sudamerica, secondo il sottoscritto) non doveva essere considerato come un’eccezione, e su Lisandro Lopez, uno che è andato alla scuola di Milito per rubargli i segreti dei movimenti del grande numero 9. E che quando segna non butta le mani al cielo, ma si punta l’indice alla tempia: per ricordare a tutti che nel calcio ci vuole intelligenza.

La commozione più grande, dopo il triplice fischio nella gara contro il Tigre che ha decretato la matematica certezza del titolo, il pubblico argentino l’ha vissuto quasi immediatamente quando davanti alle telecamere ci è andato Matias Zaracho. Classe ’98, il giovane centrocampista offensivo è cresciuto al Tita Mattiussi, il centro di allenamento di giovani è dedicato a quella che nominalmente era la lavandaia del club, anche se per molti è stata nei tanti anni che ha vissuto lì una figura genitoriale. Zaracho ha presentato la sua madeleine: la pioggia sul tettuccio dello scassato colectivo che lo portava al campo di allenamento. Gli anni pieni di speranze e paure, tra gioie e delusioni della sua formazione. Fino alla serata di domenica. Finalmente campione.

BRASILE

Giovani speranze. Link immediato al Brasile, la più ampia fucina di talento della storia del calcio. In questi primi mesi dell’anno si sono giocati in successione il torno Sudamericano under 20 e quello under 17. Per la prima volta da quando rotola un pallone nel Pais do Futebol, entrambe le selezioni, le due giovanili più importanti non si sono qualificate per il Mondiale* di categoria.

Inacreditavel.

Siccome già immaginiamo la litania già auscultata dopo il Mineiraço, e cioè che in Brasile non nascono più giovani giocatori, ci portiamo avanti. E non solo per motivi palesi: Vinicius Junior, classe 2000, è già un giocatore importante del Real Madrid e non ha partecipato al Sudamericano sub20 dove poteva trascinare i suoi a ben altri risultati.

Nell’Under 17, ad esempio c’è un super prospetto come Reinier (già presentato qui su Locos) che non tarderà lui pure ad affermarsi. Non è quindi solo questioni di calciatori, nelle fila del Brasile c’è una lista di ragazzi che a breve diventeranno titolari importanti anche in Europa.

Il talento, insomma, rimane, ed è, come Storia ordina, abbondante.

Il problema, secondo noi, è altro. Proviamo ad accennare due spunti di riflessione.

Primo, la competitività cresciuta. In Sudamerica non ci si può fermare ai giganti storici, le altre squadre sono sempre più complicate da affrontare. Se anni fa ricordavamo il grande valore della Colombia, oggi non possiamo non notare come Venezuela (due anni fa arrivò addirittura alla finale del Mondiale under 20) ed Ecuador (primo titolo in assoluto nel recente sudamericano under 20) siano ormai squadre con tanta qualità. Inevitabile che sbagliare qualche partita vuol dire rimanere fuori dalle prime quattro, cioè nei posti dove prima tranquillamente la formazione verde-oro si posizionava.

Un’altra grande riflessione è sulla proposta di calcio delle giovanili brasiliane. Il livello degli ultimi anni si è costantemente impoverita. Forse è necessario ricominciare a interrogarsi sui processi di selezione dei tecnici, non necessariamente sui nomi, ma proprio sui criteri che precedono appunto le scelte. La Seleçao di Tite in qualche modo sembra l’unica ad avere avuto un trend positivo, nonostante la sfortunata partecipazione al Mondiale russo, dove però ci è arrivata col ruolo di favorita, proprio per il grande lavoro del tecnico gaucho. Tutti hanno sottolineato il bel gesto voluto dal CT dell’under 17 argentina, il mai dimenticato “Payaso” Aimar (non tutti possono fregiarsi il titolo di “idolo di Messi”): poco dopo il fischio finale, e prima di esultare per un 3-0 che li avrebbe portati avanti nella manifestazione, che è ancora in corso, ai danni del Brasile, ha chiesto ai suoi di andare a confortare i rivali, distrutti per l’eliminazione.

Tempo fa aveva detto: “Coltivare valori nei ragazzi è molto importante, specie a questa età. Non so se influisce nel gioco, certo influisce sulla loro vita, ed è questo l’importante.” Contribuire a costruire uomini, prima che calciatori, ed è in fondo quello che importa, visto che i titoli vanno e vengono. E poi siamo convinti, noi che abbiamo la stella polare in Marcelo Bielsa, che aiuti anche al futbol, mostrare uomini e giocatori con valori. Vale per Aimar, vale per Milito, vale per il calcio. Tutto. 

Tre consigli.

Libro: Eduardo Galeano “Il cacciatore di storie”

E’ appena uscito in Italia il libro postumo di Galeano. Quando si parla di valori e si aggancia il futbol, ci pare inevitabile vivere le parole di questo grande scrittore e uomo uruguayano. Il calcio vale di più dopo aver letto Galeano.

Luogo/1:

Calle Diego Milito, Avellaneda

Fuori dal Cilindro, esiste da qualche anno una nuova via. C’è scritto sotto “calciatore”, ma anche la dicitura genio o idolo per qualcuno non sarebbe stata così peregrina.

Luogo/2

Museo do Futebol, San Paolo

Non esiste al mondo un museo del calcio bello e interessante come quello che si trova dentro allo Stadio Pacaembu, nella capitale paulista. Un museo differente, perché non si limita mostrare maglie e cimeli. Puoi, visitandolo, e ogni appassionato vero che passe da quelle parti, deve visitarlo, conoscere la genesi di tanti vocaboli legati al calcio, ascoltare le telecronache originali dei primi gol di Pelé e Garrincha e testare le proprie capacità di calciare. Sarebbero da copiare, musei così: per renderli finalmente vivi. Non c’è metodo migliore per educare i nostri ragazzi allo sport più bello del mondo.

 

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