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La storia del Milan possiede una sua peculiare armonia: state pur certi che il dolore provato, persino il più lancinante, un giorno sarà risarcito anche con gli interessi.

Qualche esempio.

Nel 2007 una squadra più scarsa e declinante di quella del 2005 ebbe per magia la possibilità di vendicarsi sul Liverpool appena due anni dopo il fattaccio, quando altre tifoserie aspettano da decenni - e la loro non è speranza, ma terrore di ricascarci.
D'altra parte oggi, nel 2019, il nostro bomber nuovo di zecca è originario della Slesia, la regione da cui proveniva l'Orco Dudek.
Un portiere di Napoli, Gigio Donnarumma, ci è stato portato direttamente da Gesù Cristo come risarcimento per un portiere del Napoli che, con una mascalzonata perpetrata in pieno sole nel maggio 1982, ci aveva inferto un colpo quasi mortale.
Il nostro giovane ed elegante capitano, Romagnoli, porta lo stesso cognome del guardalinee che non vide il gol di Muntari. Eccetera, eccetera.

Eppure il derby andato in scena la sera dell'11 maggio 2001 sfugge a ogni premonizione e coincidenza.
Se ne sta al centro della vallata, austero e intoccabile nella sua solennità come il monolite nero di Kubrick, che la sapeva lunga e non a caso aveva ambientato la sua Odissea nello Spazio in quel medesimo anno.

Invano gli interisti hanno provato a replicarlo, andandoci davvero vicini solo una volta nel 2009, quando si fermarono a 4-0 perché notoriamente vincere le partite con più di un gol di scarto e senza barricate finali provoca loro un senso di disagio come se entrassero in Duomo in mutande.
Ma che fai, ti metti a copiare la Cappella Sistina?
Non si saprebbe nemmeno da dove cominciare, se da Comandini mandato in campo a sorpresa da Cesarone Maldini sulla scia delle sue due (!) presenze da titolare in campionato fino a quel momento, o da Serginho che devasta la fascia destra dell'Inter da casello a casello dal primo al novantesimo minuto, o da Giunti che batte una punizione lemme lemme non aspettandosi mai che quella rimbalzi a terra e finisca nell'angolino vagamente protetto da un Frey in stato confusionale. O forse dal tifoso interista che fa invasione di campo sullo 0-4 e, siccome siamo in epoca pre-social, non cerca like e visibilità col cellulare in mano ma semplice comprensione umana, aggirandosi sbigottito tra le macerie come Charlton Heston nel Pianeta delle Scimmie? O forse da Marco Tardelli - Dio l'abbia in gloria - che assiste allo scempio stravaccato in panchina con le gambe all'aria come un commercialista sul divano davanti a Netflix, e gli manca solo il bicchiere di Montenegro in mano, regalando un'istantanea pressoché ineguagliabile di interismo?

Fu una serata inspiegabile anche per noi, abituati ad aspettarci il massimo. Per di più un venerdì sera – si giocava di venerdì sera per esigenze elettorali, la domenica si sarebbe votato per le Politiche che sancirono il trionfo di Berlusconi – in coda a una stagione anonima tanto per loro quanto per noi, che saremmo finiti a braccetto quinti e sesti nelle mestizie della zona UEFA. Forse per questo la lama affondò sino a lacerare la carne viva, per questo delitto così efferato in cui mancava tuttavia il movente. Altri grandi derby passati e futuri – il 2-0 di Sacchi, il 3-2 di Seedorf, le vittorie in Champions* – muovevano e muoveranno da una netta superiorità tecnica; ma questo fu un temporale di violenza inaudita laddove fino a pochi minuti prima c'erano solo pigre nuvole primaverili. E potevamo essere ancora più feroci, potevamo infierire sul popolo che appena la domenica precedente si era esibito nella gag del motorino lanciato dal secondo anello e approfittare dei nove minuti a disposizione dopo il 6-0 per fare il settimo e l'ottavo, ma siamo nati col coeur in man. Eppure a fine partita qualcuno in zona mista fermò Shevchenko, che appariva sinceramente costernato. "Mi dispiaciue per l'Intuer, sei guol suono tanti". Andriy, bastava fermarsi. "No, perché cuosì va il calciuo".

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