Giusto ieri sera mentre Bill Evans girava sul piatto stavo riflettendo sul fatto che in fin dei conti la sorte è stata magnanima con me. Mi ha fatto bello, di vaste letture, di molteplici interessi, di impeccabile modestia e soprattutto milanista.

Anzi.

Non solo tutto questo, che già non sarebbe poco. Mi ha anche concesso il dono di abitare ad una distanza ridicolmente insignificante dal luogo più sacro al mondo, lo stadio di San Siro. Ecco, un giorno, per mera curiosità ho calcolato la distanza, stimabile in un 1 km abbondante. Milleduecentometri precisi precisi, quelli che separano casa mia da Axum, la grande piazza da poco intitolata a Nereo Rocco, in cui sorge in tutto il suo splendore la Curva Sud. In 32 anni di abbonamento ci sono arrivato (e poi tornato) per lo più a piedi. Sono appena dieci minuti del resto, passati camminando con tutti gli stati d’animo che contempla lo spettro delle emozioni umane: la felicità, la rabbia, la delusione, raramente la noia.

C’è solo una volta che ho pensato di farlo correndo, scapicollandomi senza fiato, senza fermarmi, finché non fossi tornato a casa, al sicuro, possibilmente con le mani sulle orecchie, per non sentire nulla. È successo il 13 Maggio del 2003.

Il giorno del derby più importante della Storia. Il derby che non abbiamo vinto.
Ma abbiamo vinto.

Potete anche non crederci, ma giuro: non l’ho mai rivista. Non ho mai voluto rivivere quel terrore, cieco e cupo, quel panico prolungato e condiviso che per otto interminabili minuti (più recupero) mi ha levato il cuore dal petto, congelando il sangue nelle vene e levandomi il respiro. Tutto andava bene, tutto era tranquillo. Sheva l’aveva messa a fine primo tempo: saltato di netto Cordoba, inutile l’uscita di Toldo. 0-1. Eravamo crollati l’uno sull’altro, tutti con la maglia rossa, un muro di ortodossia milanista e casciavit in uno stadio insolitamente nemico.

Felici, ma anche concentrati. Stiamo calmi che è lunga. Da lì in poi lentamente e con la consapevolezza di chi bullandosi sa di stare dalla parte giusta della Storia, scivolavamo verso l’inevitabile trionfo. Inizio secondo tempo, manca mezz’ora, poi 20 minuti, quindi il canonico quarto d’ora accademico. Fino agli ultimi dieci minuti. Nessun pericolo, nemmeno un brivido. Ci devono recuperare due gol e mancano otto minuti, di cosa vuoi preoccuparti. Fino a quando dal nulla arriva una palla vagante e con lui Oba Oba Martins, un ragazzino di 18 anni che brucia due giganti come Billy e Paolo: è da solo davanti ad Abbiati.
Gol.
1-1. Fa le capriole mentre il tempo si ferma.

Il terrore. Totale. Immanente.

Siamo cristallizzati. La disperazione loro, il panico nostro.

Seguono momenti di puro deliro. Quelli scendono a folate, teniamo tutto quello che si può tenere, spingono, spingono, sbandiamo. Noi e loro, tutti e due sappiamo che comunque vada, questo è Il Derby che Passerà alla Storia. E che sta per finire.

Da qualche parte torna un po’ di coraggio. Cantiamo, facciamo la nostra parte. La nostra trincea sono quelle scritte: Fossa dei Leoni, Brigate Rossonere.

Lottate su ogni metro. Sputate sangue. Non mollate, ragazzi. Non mollate.

Mancano tre minuti. Kallon si ritrova ad un metro da Abbiati.

Faccio solo in tempo a pensare che Mimmo Kallon, cioè con tutto il rispetto, dico Mimmo Kallon, sta per eliminarmi dalla Champions. In un derby. Che stavo vincendo.

In quel preciso instante mi dico: se la mette, esco correndo e non mi fermo più. È troppo.

Kaladze alla disperata cerca di arrivarci, quello tira lo stesso. Christian si muove e fa la parata più importante della sua vita e dei 100 e rotti anni di gloria dell’AC Milan 1899.

Deviata, fuori. Si resta sull’1-1. Non basta. Calcio d’angolo. Ci arriva Cordoba per primo.

Palo.

Si mette le mani nei capelli, ha capito.

Era l’ultima occasione. Non ce ne saranno altre Ramiro, spiace. Arriva il fischio. Stavolta è finita davvero.

Ricordo solo i nostri ragazzi che al posto di festeggiare, invece di crollare esausti si sono messi a correre come dei matti sotto la nostra Curva, sotto di noi, sotto la Sud, come per abbracciarci tutti, uno a uno. L’abbiamo fatto per voi, perché lo sapevamo che non era immaginabile vivere una vita dopo aver perso questa partita. E tirate fuori dal cassetto il passaporto, che dobbiamo andare a Manchester ad alzarne un’altra. A portare a Milano un’altra Coppa con le orecchie.

Ero sfinito, esausto, ma leggero, di quella felicità cristallina che ti fa volare senza peso.

Dovrei dire che stavo pensando a tutto questo, ma non è vero. Stavo solo pensando che ero sopravvissuto, che ero ancora vivo, che non ero io quello a terra, a piangere. Stavo pensando che per il resto dei miei giorni, quando mi avrebbero chiesto qual è stato il derby più importante della mia vita, avrei risposto: 13 maggio 2003, Semifinale di ritorno di Champions League*.
Inter-Milan 1-1. Il derby che non abbiamo vinto. Ma abbiamo vinto.

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