Dopo la lunga assenza dai campi dovuti a una operazione ai tendini della mano destra, Matteo Berrettini è rientrato nel circuito sulla sua amata erba, quella che nel 2021 gli ha dato il più importante risultato della sua finora giovane carriera – stupendo gli appassionati di scommesse online* - ovvero la finale del torneo di Wimbledon.

A Stoccarda, dove Berrettini ha fatto il suo ritorno alle gare, abbiamo intercettato – a due anni dall’ultima nostra intervista - il suo allenatore Vincenzo Santopadre, ex tennista italiano che all’inizio degli anni ’90 era entrato nelle prime 100 posizioni del ranking e che ha intrapreso con Berrettini un lungo percorso che ha portato entrambi ai vertici del tennis mondiale.

Vincenzo, innanzitutto come sta Matteo al momento e che obiettivi vi siete posti nel breve periodo dopo la sosta per l’infortunio?

Fisicamente Matteo sta bene, ha recuperato completamente dall’operazione. Ci è voluto un po’ più di tempo di quanto non ci si potesse aspettare perché si è pur sempre trattato di un intervento chirurgico e bisognava rispettare le tempistiche richieste da questo tipo di operazione. Ci siamo messi completamente nelle mani del medico e del fisioterapista e abbiamo seguito le loro indicazioni e le loro tempistiche per evitare di avere ricadute.

Il recupero è andato molto bene, soprattutto grazie a Matteo che ne è stato ovviamente l’attore principale per l’ennesima volta, visti i tanti infortuni di cui purtroppo è stato vittima negli ultimi anni. Ogni volta che si è dovuto fermare per recuperare da un problema fisico ha sempre detto “tornerò più forte”, e anche questa volta ha sfruttato questa pausa per poter lavorare su alcune cose che, quando ci si trova nel vortice del circuito e dei tornei, non si possono fare. Credo che sia riuscito a migliorare sotto alcuni punti di vista e direte poi voi se pensate che questo miglioramento ci sia stato o meno.

 

Come si riesce a bilanciare la necessità di riposo imposta da un infortunio come quello subito da Matteo con la volontà di mantenersi comunque in forma negli aspetti del fisico e del gioco che non sono coinvolti dall’infortunio? Per esempio, Matteo non poteva usare la mano destra, ma il resto del corpo era comunque “a disposizione” per possibili allenamenti. Come vi siete regolati?

In casi come questi è assolutamente necessario seguire le indicazioni della troupe medica e agire di conseguenza. Per esempio, durante le prime due settimane dopo l’intervento chirurgico Matteo non poteva nemmeno sudare, questo per evitare possibili infezioni, per cui è stato necessario osservare un riposo assoluto. Dopodiché abbiamo cominciato a seguire degli allenamenti di tipo diverso: per esempio ci siamo concentrati sugli arti inferiori, dove Matteo ha raggiunto prestazioni che non aveva mai raggiunto prima nella sua carriera. Poi abbiamo anche fatto un po’ di tennis giocando con la mano sinistra, per migliorare anche la sensibilità da quella parte del corpo. Insomma ci siamo un po’ ingegnati.

Durante il torneo di Parigi abbiamo visto Nadal giocare con un infortunio per tutta la manifestazione e Zverev doversi ritirare per un incidente improvviso molto traumatico. Che tipo di ruolo riveste il team intorno al giocatore in situazioni di questo tipo, quando c’è un infortunio da gestire?

Il team è fondamentale sotto due aspetti. Innanzitutto deve supportare il giocatore nel gestire la situazione nella maniera ottimale sotto il punto di vista mentale. Poi bisogna fare in modo di presentare un piano di recupero per uscire dal momento di difficoltà, dando l’impressione al giocatore che tutto è sotto controllo, che la situazione è ordinata, in modo tale che non si faccia prendere dal panico di un evento improvviso e traumatico. Nel team di Matteo ha avuto un ruolo fondamentale Stefano Massari, il suo mental coach, che è stato molto bravo a creare delle tabelle di marcia per aiutare il giocatore a seguire un percorso per tornare alla situazione pre-infortunio.
È necessario lavorare anche con un pizzico di fantasia, come nel nostro caso inventarsi gli allenamenti con la mano sinistra, e mantenere saldamente la visione d’insieme di tutti gli aspetti della situazione per non dar modo all’atleta di pensare che ci siano degli elementi che non sono sotto controllo.
Durante l’ultimo Roland Garros Nadal ha dimostrato, ancora una volta, di avere una forza mentale disumana, per essere riuscito a controllare un infortunio così serio fino alla fine della competizione. Si tratta probabilmente del più grande esempio da seguire per un atleta, anche se molto difficile da imitare.

Si è discusso molto della decisione di Jannik Sinner di lasciare Riccardo Piatti e di cominciare a lavorare con Simone Vagnozzi come suo nuovo coach. Quali sono gli aspetti che bisogna considerare quando si prende una decisione di questo tipo?

Quando si cambia coach, si cambia anche la persona con cui si passa la maggior parte del tempo nel tour. Non è semplicemente una decisione professionale, ma bisogna che ci sia l’alchimia giusta tra i due anche a livello personale. La componente umana è ancora più importante di quella tennistica, perché quando si è in giro per tornei si passano tante ore insieme, spesso si cena insieme, e se le due persone non si trovano bene insieme è molto difficile far funzionare il rapporto anche a livello tecnico. Si tratta di un cambio molto radicale, che nel caso di Sinner richiederà un po’ di tempo perché possa dare frutti. Credo che Sinner debba essere molto grato a Riccardo [Piatti] per i risultati ottenuti, perché è indubbio che il lavoro eseguito fino all’inizio di quest’anno abbia dato risultati molto importanti: se Sinner è arrivato in Top 10 e alle ATP Finals è sicuramente anche merito di Riccardo. Ora bisogna dar tempo a Simone [Vagnozzi] di gettare le fondamenta del suo progetto con Sinner e valutare i risultati più avanti, quando i due avranno avuto tempo di lavorare insieme.

Considerando tutti i tornei che Matteo non ha potuto giocare durante questa stagione, quali sono verosimilmente gli obiettivi nell’immediato, principalmente al torneo di Wimbledon, e quali traguardi vi prefiggete di raggiungere per la fine della stagione?

L’assenza prolungata dai campi ha sicuramente reso l’obiettivo della partecipazione alle ATP Finals di Torino più un miracolo che un’impresa. Ma Matteo è molto determinato a riprendersi quello che la sorte gli ha tolto per ritornare più forte di prima.
A Wimbledon l’obiettivo minimo che ci poniamo è quello di arrivare alla seconda settimana, e da quel punto in poi vedremo quale sarà la situazione e dove si potrà arrivare. In cuor nostro ambiamo al massimo traguardo, poi bisogna anche vedere quali saranno le circostanze specifiche, il tabellone e giocatori che ci troveremo a dover affrontare. Anche lo scorso anno, una volta visto che il giocatore più pericoloso del tabellone [Djokovic n.d.r.] era nell’altra metà, io mi ero detto “qui si arriva almeno in finale”. E non era una sparata così tanto per dire, lo pensavo veramente.

Tra gli impegni che Berrettini dovrà affrontare da qui alla fine della stagione c’è anche la Coppa Davis. Si fa un gran parlare del cambiamento della formula della Davis, più di qualche giocatore storce il naso con questo formato molto diverso rispetto alla tradizione. Tu cosa ne pensi della nuova Coppa Davis?

Io sarò tradizionalista, ma questa nuova formula non mi piace molto, la vecchia aveva molto più fascino. Certo dal punto di vista del calendario questo nuovo formato ruba molto meno tempo, occupa meno spazio nel calendario quindi soprattutto per certi giocatori è molto più gradita perché fa “perdere meno tempo”. Infatti ricordiamo tutti come alcuni tennisti, soprattutto quelli di vertice, facessero scelte molto radicali e decidevano di partecipare alla Davis solamente quando avevano una squadra competitiva che consentisse loro di poter puntare alla vittoria.

Negli Stati Uniti e ora anche in parecchi Paesi europei è un gran fiorire di Tennis Academy. Per quale motivo il fenomeno sta avendo tanto successo? E potrebbe rappresentare un modello da seguire anche in Italia?

Il concetto di Tennis Academy mi è molto familiare perché per tre anni sono stato coinvolto nella realtà della Rome Tennis Academy, alle porte della Capitale, dove mi sono confrontato con tutti gli aspetti della gestione di queste realtà. Ci sono tre tipi di accademie: quelle che si prepongono come imprese commerciali, perseguendo quindi obiettivi di redditività economica; quelle che si prepongono di creare una struttura a misura di giocatore, come era un po’ la Rome Tennis Academy; e quelle che cercano combinare i due aspetti.
Credo che il compito più importante di un’accademia sia quello di formare i ragazzi sui valori dello sport e avviarli alla professione di tennista. Bisogna rispettare le esigenze di ogni giocatore, facendo in modo che il ruolo dell’Academy cambi evolvendosi allo stesso modo delle esigenze del giocatore. Ovviamente a seconda dell’età e dello stadio di evoluzione di un tennista ci sono bisogni diversi da soddisfare: l’accademia deve accompagnare i giocatori da quando sono ragazzi giovani fino a quando sono pronti per spiccare il volo. Inevitabilmente si inizia il percorso in un contesto di gruppo per poi evolversi e finire in un contesto di dedizione individuale al giocatore, che diventa un individuo specifico con dei bisogni ben definiti e diversi da quelli di tutti gli altri.

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