Un uomo.

A volte nel calcio, ma probabilmente non solo lì, basta un uomo che riesca a compattare il gruppo, a convincerlo che uniti si arriva lontano, che il sacrificio individuale rappresenta il benessere di tutti, per riuscire a raggiungere traguardi insperati.

A volte, nel calcio, un gruppo di buoni-ottimi giocatori si concentrano in una generazione per riuscire a imporsi, ma serve la compattezza di spogliatoio per iniziare una storia differente.

Così fu per l'Olanda, nella Vecchia Europa degli Anni Settanta, una squadra con modesta tradizione calcistica alle spalle che sostanzialmente all'improvviso cambiò la storia del Gioco. Non ebbe lo stesso impatto storico, ma certo si scomodarono docenti, professori e analisti per parlare della nazionale del Senegal del Mondiale del 2002. Una squadra unita sotto la guida del tecnico francese Bruno Metsu, che introdusse, come scrisse in quei giorni Sandro Modeo,“al posto della severità castrante del tedesco Peter Schmittger una complicità “pasoliniana” coi suoi ragazzi di vita ribelli e proletari”. I dottori di cui sopra, analizzarono sociologicamente un gruppo di uomini che era a doppio filo legato alla Francia, alla storia della Francia, alla politica criminale della Francia in Africa e alle banlieue della Francia. E la Francia, quella campione del Mondo del 1998, che riuniva la storia della Madrepatria e delle colonie, unite in un Paese che voleva mettersi alle spalle la paura del diverso da sé, almeno per una stagione, venne sconfitta nel match inaugurale proprio dal Senegal, che giocò un mondiale 2002 straordinario. Pelé, confermando la sua pessima fama di futurologo, li aveva vaticinati ultimi del girone eliminatorio: si arresero solo nei supplementari dei quarti di finale alla Turchia.

Eliminati ma mai vinti.

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Avevano fatto la storia.

Di un Paese che nella storia dell'Umanità deve entrarci di diritto, perché testimone della sua più grande tragedia, quella della tratta degli schiavi che conoscevano l'ultimo soggiorno africano, prima dell'imbarco sulle navi della morte, nell'isola di Gorée, in Senegal, e protagonista, successivamente, nell'Età della Decolonizzazione, di un miracolo di convivenza pacifico, dopo aver eletto a presidente un sublime poeta come Léopold Sédar Senghor, un cristiano praticante in una terra dove sono per il 95% mussulmani. Convivenza pacifica confermata anche dai predecessori: è giorno non lavorativo quello successivo al Natale, in modo che chi ha partecipato alla festa abbia la possibilità di riposarsi.

Un uomo, Bruno Metsu, portato via da questo mondo troppo presto da una malattia inesorabile e pianto da un popolo intero.

Un uomo, Aliou Cissé, che di quella straordinaria nazionale del 2002 era capitano. E oggi ne è diventato commissario tecnico, dei Leoni della Teranga.

Metsu aveva portato il Senegal al primo mondiale della sua storia, Cissé ha fatto il bis, nel 2018: producendo un calcio effervescente, godibile, moderno e organizzato, forse la migliore nazionale della fase a gironi, dove la squadra si è dovuta fermare a causa di un regolamento ridicolo che li ha esclusi per qualche cartellino giallo in più rispetto al Giappone. Un’ingiustizia? “Il regolamento lo conoscevamo prima, è dura, ma dobbiamo accettarlo”. Classe anche fuori dal campo.

Non meritava un fine corsa così, Aliou. Non lo meritava il gruppo di giocatori, a cui nel frattempo si è aggiunta maggiore visibilità perché nel Wanda Metropolitano, al termine della finale di Champions League c’era una bandiera senegalese attorno al collo di un ragazzo giunto, molti anni fa, a Dakar per un provino senza scarpini né calzoncini: oggi Sadio Mané è un campione che produce giocate decisive nella più importante manifestazione calcistica del globo ed è amato dalla tifoseria europea più nota. Ma non rinuncia alla nazionale, lui che è originario della Casamance, la zona più a sud del Paese, che ha visto nascere e crescere movimenti indipendentisti: ma con la maglia dei Leoni della Teranga addosso non si creano divisioni.

E questo gruppo compatto fatto di valori e idee di gioco è arrivato fino alla finale di Coppa d’Africa, la seconda della storia del Senegal: la prima, ovviamente con Metsu in panchina, l’aveva raggiunta nel 2002, e Aliou, fascia di capitano al braccio, si era dovuto arrendere, ma solo ai rigori (errore decisivo di Cissé), al Camerun di Samuel Eto’o.

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Cissé se l’è conquistato il posto da CT, all’interno dello spogliatoio con le idee chiare nello sviluppo di gioco e nella gestione del gruppo. Se qualcuno aveva pensato che sarebbe una sorta di smunto player’s coach si è dovuto immediatamente ricredere, tanto che è presto sorto un soprannome che lo qualifica in maniera totalmente differente: in molto lo hanno ribattezzato “Yaya Jammeh”, il nome dell’ex terribile dittatore gambiano, non esattamente un democratico… (la Gambia – l’ambasciatore di questo Paese ci ha intimato di utilizzare l’articolo femminile - è lo stato confinante e molto legato al Senegal, una sorta di Senegal di lingua inglese). Altri, più benevoli, si sono fermati a un semplice “Deschamps senegalese”.

Non sono nemmeno mancate le critiche, specie dopo l’eliminazione dal Mondiale (che abbiamo già qualificato come ingiusta, sopra), per la quasi totalità decisamente superficiali: si è distinto, nelle bassezze, l’ex centravanti della squadra da sogno del 2002, El Hadji Diouf: “finché ci sarà Cissé sulla panchina, i Leoni non andranno da nessuna parte.” Come spesso capita, coi risultati che piano piano arrivavano, ecco una repentina inversione a U dell’ex attaccante del Liverpool: “Dobbiamo tutti supportare il Senegal, dobbiamo essere tutti uniti per la conquista del trofeo”, ha detto il triplice fischio della semifinale con la Tunisia.

Da tre anni il Senegal è leader africano nel ranking FIFA, è uscito come è uscito dal Mondiale, ed è in finale di Coppa d’Africa. Aliou Cissé con idee e valori ha plasmato un gruppo solido che produce un calcio moderno che, in un Paese che spasima per il calcio, deve rendere orgogliosi tutti i senegalesi. È un uomo, Cissé, un uomo differente.

@pizzigo