Storia ed Evoluzione del Salary Cap in NBA
Analizziamo come funziona e l'evoluzione di uno degli aspetti più intriganti della NBA: il Salary Cap.
Il Salary Cap NBA è uno degli aspetti più interessanti in funzione nel mondo NBA: il concetto che ogni squadra NBA possa disporre della medesima soglia massima di stipendi da spendere nei contratti dei propri giocatori rende, di fatto, la lega naturalmente predisposta a cambi di equilibrio e rivoluzioni in breve tempo. Una regola molto democratica che tende ad appiattire le differenze economiche tra le varie franchigie NBA che, però, non è così semplice comprendere. Dunque, per intenderci, è un po’ come il limite di versamento quando si gioca alle scommesse online*. Andiamo a conoscere nel dettaglio la storia e l’evoluzione del Salary Cap.
Partiamo da un concetto cardine: il Salary Cap livella le forze in campo, ma le livella verso l’alto. Se è vero che, grazie al Cap, anche le franchigie più ricche non possono spendere oltre una certa soglia, è anche vero che le società più “povere” sono tenute a investire. Infatti, all’interno del sistema di Salary Cap NBA è fondamentale anche la regola del Salary Floor: ogni squadra, infatti, non può spendere in stipendi meno del 90% della soglia fissata per il salary cap. Cominciamo a introdurre la questione attraverso i numeri: all’inizio della stagione 2019-20 il Salary Cap NBA aveva toccato il massimo storico: la soglia era fissata a 109.140 milioni di dollari, mentre la soglia minima da investire in stipendi era fissa a 99.226 milioni. Cifre straordinarie che restituiscono l’immagine di una lega al picco del proprio giro d’affari.
La luxury tax line, ovverosia la soglia oltre la quale le franchigie NBA incorrono in una penale per aver sforato il salary cap, è invece fissata a 132.627 milioni di dollari: tutte le squadre comprese nella soglia tra i 109.140 e il 132.627 milioni non pagano alcuna tassa perché rientrano nel così detto “apron”.
Ma com’è possibile sforare il limite della tassa di lusso? La NBA lo permette solo in determinati casi, cioè quelli nei quali una squadra voglia confermare un giocatore di cui sia già in possesso -di cui detiene dunque i così detti Bird Rights- offrendogli un contratto che può anche portare il monte ingaggi a sforare la soglia prevista.
Alla base cap NBA c’è, da sempre, il collective bargaining agreement (CBA), il contratto collettivo che regola gli equilibri della distribuzione degli introiti tra la lega e i suoi giocatori. Tale livello di equilibrio è variato nel corso della storia ed è strettamente legato ai meccanismi di contrattazione collettiva tra i proprietari e i rappresentanti dell’associazione giocatori. Questi ultimi storicamente detengono il vantaggio nella ridistribuzione negli introiti, essendo di fatto il core business della lega e di tanto in tanto, i giocatori hanno optato per uno sciopero collettivo prolungato (il lockout) nei momenti di ridiscussione dell’accordo per rendere la propria protesta più efficace e tangibile. Questo spiega perché, nel 1999 e nel 2011, la stagione NBA sia iniziata con un notevole ritardo (rispettivamente a gennaio e il 25 dicembre). L’ultimo accordo collettivo NBA prevede una redistribuzione del 49% dei proventi ai proprietari e il 51% ai giocatori, mentre quello precedente prevedeva addirittura il 57% di attribuzione ai giocatori.
Malgrado la distribuzione sia sensibilmente cambiata, però, il cap ha sempre continuato la propria incessante crescita. Come vedete, dunque, il sistema è piuttosto complesso e, proprio per questo motivo, necessita di una più approfondita analisi storica e numerica.
Il salary Cap è stato inserito definitivamente nel regolamento della lega nel 1984-85, a quasi quarant’anni dal primo tentativo (risalente al 1946-47) con l’obiettivo di equilibrare le sorti di una lega che in quegli anni viveva un importante momento di transizione: il primo salary cap della storia NBA fu fissato a 3.6 milioni di dollari (che aggiornati col tasso di inflazione attuale sarebbero circa 8.3 milioni). Una cifra che vista oggi fa sorridere ma che all’epoca segnò un grande cambiamento di rotta per la lega. Pensate che Michael Jordan nel suo anno da rookie guadagnò appena 550.00 dollari, mentre Zion Williamson, dopo il draft del 2019 ha firmato un contratto di ben 9.757.440 dollari!
Ma torniamo all’evoluzione del cap: dall’ ‘85 in poi la cifra è salita costantemente di 1-2 milioni l’anno fino al ’95-’96, anno in cui si passò da poco meno di 16 milioni annui a 23 totali, cifra che ha continuato a crescere con costanza e ancora maggiore efficacia. Il secondo grande salto lo si è avuto nel 2001-02 quando il cap è schizzato dai 35.5 milioni della stagione precedente ai 42.5 dell’anno successivo, come risultato del già citato lockout del 1999. L’unica stagione in decrescita è stata, paradossalmente, quella appena successiva con il cap che è sceso a circa 40 milioni complessivi. E poi? Una crescita costante di oltre 2 milioni di dollari all’anno fino al 2015-16, anno il cui il cap è balzato da 63 milioni a 70. Si è trattato dell’ultimo “piccolo” balzo: nella stagione successiva, complice un nuovo contratto sui diritti televisivi, il cap è schizzato a 94 milioni di dollari, divenuti poi 99, 101, 104 e infine i nostri 109. Un’evoluzione pazzesca che sarebbe bene comprendere attraverso un paragone concreto. Cosa sarebbe accaduto se Michael Jordan avesse calcato i Parquet ai giorni nostri? Prima di scoprirlo vi basti sapere che ogni singolo anno di affiliazione al brand Jordan gli frutta più di quanto abbia guadagnato nell’intera carriera NBA: 93.285 milioni di dollari circa. Una cifra che oggi supererebbe ampiamente. Il più alto contratto della carriera di Jordan è stato quello nel suo ultimo anno ai Bulls (’97-’98): 33, 140 milioni. Solo per due volte nella carriera ha guadagnato cifre simili: infatti solo l’anno precedente aveva avuto accesso a un contratto da 30,140 milioni mentre il massimo percepito nelle stagioni precedenti si era attestato sui 4 milioni della stagione ’92-’93, quella prima del suo primo ritiro.
Ai giorni nostri, invece, Jordan potrebbe accedere, vista anche l’enorme quantità di riconoscimenti ottenuti, a un contratto gigantesco. Immaginiamo, dunque, che il suo ultimo contratto coi Bulls, dopo dodici anni di permanenza, venga firmato ora: non esiste alcun contratto NBA comparabile visto che nessuna delle stelle NBA attuali ha rifirmato con la propria franchigia con il cap attuale dopo una permanenza così lunga. Il paragone più calzante è quello con Steph Curry (quinquennale da 200 milioni) ma il contratto di MJ si attesterebbe su cifre ancora più alte: la cifra raggiungerebbe quasi i 250 milioni di dollari totali in 5 anni.
Che futuro, ora, per il cap? All’inizio di questa stagione si pensava che il cap sarebbe salito fino a 117 milioni di dollari ma i problemi diplomatici avuti dalla NBA con la Cina, la sosta per il coronavirus e ulteriori piccoli fattori, probabilmente, faranno saltare il banco e ci faranno assistere a una momentanea situazione di decrescita. Non ci resta che attendere per comprenderlo fino in fondo. Intanto speriamo che questo mix di comparazioni, cifre e analisi storica abbia saziato la vostra fame di conoscenza!
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