E’ finito il campionato ma il calcio non si ferma mai. Inizia la rumba del calciomercato, sono appena finite le coppe per club e stanno per iniziare quelle per nazionali in (Sud)America e Africa. Tanti (s)punti per fare il Punto anche sotto l’ombrellone. Seguiteci e non vi annoierete!

    1. Il campo come il tempo è galantuomo e non mente mai. Sono serviti tre decenni a Maurizio Sarri per vincere il primo trofeo di prestigio della carriera. All’inizio degli Anni Novanta allenava in Seconda Categoria e nel 2019 ha conquistato l’Europa (League). Ha avuto momenti di sconforto, soprattutto al Verona e all’Arezzo, e altri di esaltazione a Napoli prima di andarsene tra la derisione dei risultatisti: “Ok, gioca bene. Ma cos’ha vinto?”. L’Europa League, ha vinto. In un anno a Londra ha maturato esperienza e progressi. Ha saputo ruotare di più e meglio i giocatori e ha accettato di giocare partite difensive. Nella Champions precedente si era fatto freddare in contropiede al San Paolo dal City di Guardiola, che poi in Premier lo ha affondato 6-0. Poi, finalmente, in finale di Coppa di Lega ha saputo giocarsela con più equilibrio, perdendo solo ai rigori. Ha anche limitato le sostituzioni programmate, dopo che gli avvicendamenti tra Kovacic e Barkley erano stati il leit motiv di tante partite nell’incubo di metà inverno, quando ha perso tutti gli scontri diretti e pure contro Leicester e Bournemouth (0-4!) e Manchester United, a Stamford Bridge in FA Cup. Ha rischiato la reputazione puntando su David Luiz nella difesa a 4 dopo che Benitez lo aveva schierato davanti alla difesa e Conte lo aveva fatto fuori. E’ stato ripagato da una semifinale di ritorno sofferta contro l’Eintracht e da un terzo posto raggiunto con 72 punti: nel campionato precedente il Chelsea ne aveva fatti solo 2 in meno e comunque non gli sarebbero bastati nemmeno per chiudere quarto (il Liverpool ci arrivò con 75). Ha vinto la finale di Baku dopo un primo tempo alla pari, grazie a 20’ travolgenti, non casuali né inusuali, che hanno ricordato uno strepitoso 4-1 col Napoli alla Lazio nella scorsa Serie A. Il suo Chelsea ha giocato meno bene del suo miglior Napoli, meno intensità e meno continuità con meno giocatori adatti al suo 4-3-3. E’ arrivato a Londra, ha visto, traballato e tremato e poi alla fine ha vinto. Con merito, al di là delle singole prestazioni. Perché ha sempre creduto nelle sue idee, anche dopo esoneri e delusioni.

    2. Sono i giorni del trionfo anche per il Liverpool e Jurgen Klopp, che vince la finale europea giocata peggio da una sua squadra dopo le tre sconfitte precedenti. Nel 2013 il suo Borussia si arrese al Bayern, graziato da Rizzoli sulla mancata espulsione di Dante, dopo una grande prova collettiva; nel 2016 il suo Liverpool si sciolse dopo il vantaggio iniziale nell’atto decisivo di Europa League contro il Siviglia; e l’anno passato l’infortunio di Salah le topiche di Karius lo punirono più delle qualità del Real Madrid. Solo due giocatori delle due rose di Liverpool e Tottenham avevano vinto prima la Champions, Sturridge col Chelsea 2012 e Shaqiri col Bayern 2013. Comprimari allora e oggi, a parte un assist dello svizzero in semifinale contro il Barcellona. Il peso della prima alla Scala si è sentito per 80’ e il rigore lampo di Salah ha narcotizzato la finale come accadde nel 2001 in Valencia-Bayern. Rigore immediato di Mendieta e match imprigionato tra tensione e noia. Il portiere Alisson e un difensore, il mastodontico Van Dijk, hanno blindato il successo dei Reds. Legge del contrappasso a suo favore per Klopp, punito in altre occasioni per una fase difensiva troppo soft e capace quest’anno di infilare 4 clean sheet consecutivi ad Anfield fino alle semifinali, più quello della finale.

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    3. Gli insuperabili Van Dijk (64 gare consecutive senza perdere un uno contro uno!) e Alisson hanno cambiato la fisionomia della squadra in maniera decisiva. Klopp, insomma, è stato ancora più bravo come manager che come allenatore perché ha sfruttato la forza economica del club per migliorare gli aspetti in cui era stato più carente nelle stagioni precedenti. Più forza, più sicurezza, più libertà di spinta per i due terzini/false ali Alexander-Arnold e Robertson. Delle Fab 5 di Premier, il Liverpool è quella che ha migliorato più di tutte il rendimento difensivo: -16 gol subiti del 2017/18, 22 contro 38, quasi la metà in meno. Un dato impressionante, che è valso il record europeo di partite senza gol concessi in stagione, alla pari con l’Atletico Madrid. Non è bastato per vincere il campionato ma è servito per maturare consapevolezza, autostima e capacità di soffrire. Al netto di alcune amnesie iniziali, Alisson ha marcato un’enorme differenza con chi lo ha preceduto al Liverpool (Karius, ma anche Mignolet) e seguìto alla Roma (Olsen: difficile ricordare un passaggio di consegne così dannoso negli ultimi anni).
    4. Cosa resta di questa eterna diatriba tra risultatisti e discepoli del bel gioco? Beh, oltre al successo dei due guru Sarri e Klopp, anche la tendenza generale. Dopo l’esonero di Allegri (non serviva Ambra Angiolini per confermare che di questo si trattava…) a difendere i dogmi del risultatismo resta ormai solo in trincea il Cholo Simeone. Tutte le grandi d’Europa hanno scelto e stanno scegliendo allenatori capaci di trasmettere identità, calcio propositivo e idee offensive. Non significa disdegnare l’equilibrio e la fase difensiva (vedi punto 3) ma credere che il gioco produca più occasioni e che il coraggio avvicini di più alla vittoria. Perché le vittorie entusiasmano certamente i tifosi della squadra che le ottiene ma il calcio-spettacolo mette d’accordo tutti: se non c’è stato un tifoso neutrale che non abbia applaudito le prestazioni europee dell’Ajax quest’anno, qualcosa vorrà pur dire, no?

    5. Il fatto principale di mercato della scorsa settimana è stato l’approdo di Antonio Conte sulla panchina dell’Inter.

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      Senza assecondare le fazioni più estremiste del tifo, è evidente che si tratta di un momento storico clamoroso. Giovanni Trapattoni e Marcello Lippi, illustri precursori dell’ex “c.t. di tutti” (cit.) non avevano comunque raggiunto il senso di identificazione assoluta che Conte ha avuto con la Juventus da giocatore e da allenatore. Dovrà conquistare i suoi nuovi tifosi e ha tutto per poterlo fare, con le caratteristiche che hanno contraddistinto la sua carriera da tecnico: senso del lavoro, nessun senso del limite, fedeltà assoluta ai propri valori tecnici, tattici e di gruppo. Sin dal suo primo impatto social ha marcato l’unità d’intenti con la società e la differenza con il passato. “No more Crazy Inter”, non più Pazza Inter. Qualcuno si è offeso, altri hanno gridato alla “lesa irrazionalità”. Dimenticando che dell’ultima Inter vincente, guidata da un altro condottiero esemplare, non si ricordano le pazzie o le occasioni gettati in modo scriteriato ma proprio regolarità, solidità e tranquillità nei momenti più caldi come la finale di Madrid 2010. A ben guardarlo, “no more crazy” non è un oltraggio alla storia ma un richiamo a quella più vincente di un club di nuovo pronto a competere al top sul piano economico e tecnico.