Se pensi che tutti i grandi successi sportivi nascano da una passione innata, le parole di Devon Harris, membro della prima nazionale di bob Giamaicana, ti faranno cambiare idea:

“Ricordo che la prima cosa che dissi fu che era un’idea assolutamente ridicola e che nessuno mi avrebbe mai convinto a salire a bordo di uno di quei cosi. Qualunque persona sana di mente sarebbe stata d’accordo con me e non riesco a immaginare nemmeno un caso in cui questo progetto non sarebbe sembrato per lo meno bizzarro.”

Non possiamo certo dargli torto. Basta considerare che la temperatura media dell’inverno giamaicano è generalmente compresa tra i 24 e i 30 gradi e, quindi, non esattamente ideale per dedicarsi alle tradizioni invernali e ancor meno per lanciarsi a tutta velocità lungo una pista di ghiaccio a bordo di una slitta in fibra di vetro.

Eppure, alle olimpiadi invernali del 2022 la nazionale di bob giamaicana celebrerà la sua ottava partecipazione ai giochi. Come ricorda Harris, tutto ebbe inizio 34 anni fa, quando con i suoi colleghi decise di accettare l’improbabile sfida:

“Due statunitensi, che all’epoca vivevano in Giamaica, assisterono a una corsa di carretti, una competizione in cui degli scapestrati si lanciavano lungo il pendio di una montagna a bordo di un carrello e questo spettacolo deve aver loro ricordato il bob.”

La coppia formata da George Fitch e William Maloney si entusiasmò tanto da decidere di mettere insieme una squadra giamaicana, con la speranza di riuscire a partecipare agli imminenti giochi di Calgary del 1988. La prima iniziativa dei due fu di mettersi alla ricerca di atleti adatti alla corsa, una componente fondamentale in una squadra di bob.

Secondo quanto raccontato in esclusiva da Harris all’operatore di scommesse sportive* Betway:

“All’epoca lavoravo nell’esercito ed è lì che Fitch e Maloney vennero a cercare candidati dopo il rifiuto della nazionale diretta alle olimpiadi estive. Immagino che fosse l’unico luogo in cui potessero trovare qualcuno abbastanza coraggioso o folle da accettare la proposta.”

Sebbene l’idea di unirsi alla nazionale di bob non fosse particolarmente entusiasmante per lui, Harris comprese presto che si trattava dell’occasione giusta per realizzare un sogno:

“Ho sempre desiderato partecipare alle olimpiadi e speravo di riuscire a conquistare un posto ai giochi di Los Angeles ‘84: ero un mezzofondista e il mio idolo era Lord Sebastien Coe. Quando il colonnello mi disse che stavano cercando atleti per il bob, mi sono illuminato: non sapevo come sarei riuscito a entrare nella squadra ma sapevo che non potevo lasciarmi sfuggire questa opportunità.

Credo che il mio superiore non si aspettasse che partecipassi e, sinceramente, sarebbe stato molto semplice tirarmi indietro, ma non sono fatto così: quando inizio qualcosa, vado fino in fondo. Una volta selezionati, la domanda non era se saremmo riusciti a raggiungere le olimpiadi, ma come avremmo fatto. Dovevamo riuscirci a ogni costo.”

Dopo avere formato la squadra con gli atleti scelti, venne il momento di affrontare un piccolo problema: dove allenarsi per uno sport invernale su un’isola tropicale. Come ricorda Harris:

“La nostra prima trasferta fu a Lake Placid, nello stato di New York, nel settembre del 1987. Fu lì che vedemmo per la prima volta un bob e la pista di ghiaccio. Dovemmo però aspettare ancora qualche settimana prima di lanciarci nel nostro primo giro di pista a Calgary, appena quattro mesi prima delle olimpiadi.

Credo che trascorremmo lì circa sei settimane prima di andare a Innsbruck, tornare in Giamaica per Natale e volare nuovamente a Lake Placid nel gennaio del 1988, quando ormai mancava un solo mese ai giochi invernali. Se non era possibile trasportare le piste sull’isola, sarebbe stata l’isola ad andare sulle piste!”

Nonostante i grandi sforzi, competere con i migliori atleti al mondo con un allenamento così breve sarebbe stata un’utopia, senza considerare la preparazione mentale. Lo stesso Harris racconta che:

“La difficoltà più grande è stata credere che potessimo farcela davvero e superare la mia grande paura della velocità e dell’altezza. Ero letteralmente terrorizzato e non c’era altro modo per farcela se non lanciarsi sulla pista e proseguire fino al traguardo. Devi affrontare la paura della morte volta dopo volta, acquisendo sempre più sicurezza dopo ogni tentativo.”

Il coraggio non è però sufficiente a evitare gli incidenti, soprattutto nel caso di chi si è appena approcciato a uno sport pericoloso. La squadra riuscì a partecipare alle olimpiadi invernali del 1988, ma venne squalificata dopo che il bob si ribaltò nel corso del quarto giro. Fortunatamente gli atleti ne uscirono illesi e camminarono insieme fino al traguardo.

L’incidente rimase impresso nella memoria collettiva, ma non fu certo il primo per la nazionale, come menzionato da Harris:

“Credo che l’incidente dei giochi dell’88 fosse il settimo solo in quella stagione e posso assicurare che ognuno di essi fu un’esperienza orribile. Scendi lungo la pista e improvvisamente ti sembra che il tempo si fermi per un minuto: i pattini si staccano dal ghiaccio, il bob si schianta e tutto ciò che percepisci è il rumore dello sfregamento sulla pista, flash di luce bianca e il terribile odore della fibra di vetro che brucia.

Ricordo che a Innsbruck il bob si sollevò ruotando e dovemmo completare le ultime due curve procedendo al contrario. Non so quale dei due fu più spettacolare, ma ciò che accadde a Calgary venne filmato ed entrò nella storia.”

Sebbene i quattro componenti della squadra siano usciti senza conseguenze fisiche dall’incidente olimpico, il loro orgoglio ne risentì profondamente.

“La prima cosa che pensai dopo l’incidente fu quanto mi vergognassi per ciò che era successo”, racconta Harris. “Eravamo tutti molto preoccupati per il nostro ritorno a casa, pensavamo di avere deluso il nostro Paese e che i nostri connazionali ci avrebbero deriso. La realtà fu completamente diversa! La gente ci accolse con entusiasmo, tanto che il governo emise dei francobolli con i nostri ritratti, fu un grande onore.”

Nonostante l’accoglienza da eroi in Giamaica, Harris ebbe l’impressione che il pubblico fosse eccessivamente indulgente con lui e il resto della squadra:

“Tutti erano gentili e orgogliosi di noi, ma ci stavano anche giustificando, dicendo che eravamo stati bravi considerando che eravamo giamaicani, che non abbiamo la neve e frasi simili, sebbene nessuno di noi fosse mai ricorso a queste scuse.

Non ci importava che fossimo giamaicani, pensavamo che il nostro dovere fosse padroneggiare questo sport in cinque mesi e ottenere un grande risultato. Magari mi illudo, ma sono convinto che se avessimo avuto più risorse economiche avremmo potuto giocarci il podio.”

La sfida per le nuove generazioni è proprio questa, andare oltre la qualificazione olimpica per puntare alla vittoria.

“Ci è voluto molto tempo per arrivare a questo punto e stiamo lavorando duro per convertirci in una squadra da battere.”

Sembra che una delle nazionali più sottovalutate di sempre abbia ancora molto da dare a questo sport.

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