Il 6 gennaio 2007 gli italiani ascoltavano le indicazioni del governo Prodi da poco insediato a palazzo Chigi, prendevano confidenza con il volto di Olindo Romano - uno degli esecutori della strage di Erba - mentre la Juventus, sconfitta nel trofeo Berlusconi dal Milan per 3-2 (rinviato in quell’occasione all’Epifania), si preparava alla sfida contro il Mantova in Serie B; persa 1-0, con Marco Bernacci corso a esultare sotto la curva di casa dopo una rete che verrà poi registrata come autogol di Robert Kovac.

Dall’altra parte dell’oceano, LeBron James quella sera trovò nella calza un regalo da parte della Befana e soprattutto dei suoi compagni di squadra: nonostante una pessima partita e una prestazione da 3/13 al tiro in 43 minuti sul parquet, i suoi Cavaliers - aggrappati al giovane talento scelto al Draft meno di quattro anni prima - vinsero lo stesso contro Milwaukee che non perdeva in casa da un mese. Nove assist per James, con cinque rimbalzi e soli otto punti a referto. Un dato che fece notizia anche per le scommesse sportive*: nelle 270 partite NBA giocate fino a quel momento, il n°23 dei Cavaliers soltanto in otto occasioni non era riuscito a raggiungere la doppia cifra alla voce punti.

Quattordici anni dopo le partite complessive in regular season sono diventate nel frattempo più di 1.300, ma le gare con meno di dieci punti sono rimaste otto. Più di 1.000 partite in fila con almeno 10 punti a referto. Non esiste dato migliore per raccontare la costanza di rendimento, la longevità e la capacità di incidere in ogni situazione da parte di LeBron James, che a 36 anni e con 18 stagioni alle spalle è ancora il miglior giocatore NBA. Il titolo conquistato nella bolla di Orlando lo scorso ottobre in finale contro i Miami Heat gli ha regalato il quarto titolo in carriera e il quarto premio di MVP delle NBA Finals, diventando così l’unico nella storia a essere indicato come il miglior giocatore in campo nell’atto conclusivo della stagione con tre squadre diverse. Record che non hanno saziato la voglia di vittorie di James, nonostante il tempo che continua a passare - più per gli altri, che per lui.

A 36 anni nessuno meglio di lui, neanche Kareem Abdul-Jabbar

Guardando a ritroso, diventa difficile individuare nella storia NBA un termine di paragone. Michael Jordan ad esempio alla sua età si godeva il secondo anno di riposo dopo il secondo ritiro dal basket professionistico, in attesa dell’ennesimo “I'm back” che si prese i titoli di prima pagina dei giornali del maledetto 11 settembre 2001; finito in secondo piano nel giro di un paio d’ore quella mattina, quando i notiziari del mondo intero dovettero fare i conti con fatti di ben altra dimensione e importanza. Quella di MJ è stata un’era sconfinata, immensa, rivoluzionaria, durata però 15 stagioni. Kobe Bryant a 36 anni invece era ancora in campo, penultima stagione in carriera da professionista, costretto ad alzare bandiera bianca dopo 35 partite a causa di un’operazione alla spalla destra. Segnava oltre 22 punti di media, ma i suoi Lakers puntavano a una buona scelta al Draft e non al titolo NBA. LeBron James, al suo 18° anno in NBA, è tra i principali candidati al titolo di MVP della regular season e non accenna a flettere la sua traiettoria.

Anzi. L’unico termine di paragone dunque per resa e continuità a 36 anni è Kareem Abdul-Jabbar - non a caso il miglior realizzatore della storia NBA con i suoi 38.387 punti, ultimo grande record a cui LeBron James continua a dare la caccia. Il leggendario centro dei Lakers dai 34 anni in poi, nelle sue ultime sette stagioni da professionista, non superò mai i 23.4 punti di media, in una squadra in cui recitava un ruolo importante, ma nella quale gioco, responsabilità e successi erano marchiati dal nome e dal sorriso di Magic Johnson. LeBron invece sfiora i 26 punti di media, con un grado di utilizzo dei possessi del 32% negli oltre 34 minuti trascorsi in campo. La sua presenza resta totalizzante e decisiva, nel bene e nel male. James non ha saltato neanche una partita in questa prima metà di regular season, nonostante i soli 71 giorni di riposo trascorsi tra il termine della passata stagione e l’inizio della nuova - di solito, in condizioni normali, sono come minimo il doppio, anche per chi arriva fino in fondo. Nulla sembra piegarne la forza e la costanza, neanche gli avversari che da due decenni cercano (spesso invano) un modo per limitarlo.

 

Un giocatore in continua crescita: il gioco in post e il tiro da tre punti

Tom Thibodeau, assistente allenatore dei Boston Celtics nel 2007-08, rivoluzionò il modo di intendere la difesa della sua squadra pur di provare a frenare LeBron James - principale avversario nella Eastern Conference in quegli anni. A Boston si resero conto che il normale sistema di aiuti e raddoppi difensivi non bastava per fermarlo, ogni possibile accoppiamento era perdente in partenza. Tutta la squadra doveva occuparsi di James, a costo di lasciare conclusioni con spazio a chiunque altro. L’obiettivo era mettere tanti corpi a protezione del ferro sul lato di campo d’azione dell’allora n°23 dei Cavaliers, lasciando sul lato debole (quello dove non c’è il pallone, ndr) una sparuta minoranza di giocatori a marcare a zona tutti gli altri. Nei primi anni NBA infatti, James era un portentoso mix di agilità, esplosività e forza, in grado di avere un vantaggio fisico e/o tecnico in ogni circostanza. Aveva dei limiti però, che le squadre avversarie impararono a esplorare: la predisposizione al passaggio era carente, il tiro da tre punti mediocre, la voglia di giocare spalle a canestro pari a zero. La forza del campione e il segreto della longevità di James stanno in questo, nel riuscire a far evolvere il proprio gioco e nell’adattarsi alle nuove dinamiche che la pallacanestro contemporanea impone.

Se LeBron James fosse rimasto quello dei primi anni NBA, anche mantenendo atletismo e condizione fisica, oggi sarebbe un giocatore meno incisivo e in parte marginale, obsoleto con le sue 63 triple a segno come nella stagione da rookie. Lo scorso anno invece sono state 148, giocando 12 partite in meno a causa della regular season ridotta. Nel 2011 era finito alle corde e poi al tappeto perché i Dallas Mavericks lo avevano obbligato a usare il jumper dalla media distanza, due anni dopo trionfava contro San Antonio proprio grazie a quel tiro, dicendo al microfono di Doris Burke con il trofeo da MVP in mano che “non aveva messo in conto di essere lì” - mentendo spudoratamente, perché il destino raramente era stato così abile nell’associare il soprannome di “Prescelto” alla persona giusta. Infine, la questione assist: basta guardare la classifica dei passaggi vincenti della stagione 2019-20 e leggere il nome del giocatore in testa alla graduatoria. Sì, ancora una volta LeBron James. Evolversi di continuo, crescere nonostante il tempo che passa: questo il segreto del n°23 dei Lakers.

La dieta di LeBron James: non solo genetica, ma anche cura del corpo

Ciò che ha guidato la carriera di LeBron James sono stati una costanza e un impegno unici nel loro genere, uniti a una predisposizione fuori dal comune. La componente fisica, quasi genetica, infatti è preponderante. Senza la flessibilità e potenza garantita da un corpo mai visto prima per dimensioni e quantità di moto generata, sarebbe stato impossible durare così tanto e rendere sul parquet a livelli così alti. Nel raccontare la sua capacità di restare in campo in ogni tipo di situazione, alcuni compagni di squadra ai Cavaliers nella sua seconda avventura a Cleveland (dal 2014 al 2018) sottolinearono come nel suo caso un brutto atterraggio sulla caviglia fosse un incidente di percorso e nulla più.

Quella che per gli altri è una contusione, alle volte una slogatura, per lui diventa un fastidio con un convivere proseguendo a giocare. Una resistenza che va allenata - e nessuno lo fa meglio di James, certo - ma che ben racconta come quel corpo sia un dono di Madre Natura. Così Tristan Thompson, in spogliatoio con lui negli anni scorsi in Ohio: “La sua è la dieta peggiore che abbia mai visto fare a un atleta, chiedetegli cosa mangia a colazione. Spazzola via cinque french toast (100 grammi di burro e circa tre uova ciascuno, ndr), affogati nello sciroppo di fragole e banana. Poi arriva il momento di una omelette da quattro uova e alla fine, come se niente fosse, va in campo a schiacciare sulla testa di qualcuno. È una cosa che non ha alcun senso”. Quello davvero non lo insegna nessuno, ma è un’eredità che LeBron spera di poter lasciare a suo figlio Bronny; l’ultimo anello di una carriera che potrebbe proseguire anche dopo il suo ritiro. L’obiettivo - neanche troppo nascosto - è quello di riuscire a giocare insieme a suo figlio, condividere il parquet NBA con lui in un ideale passaggio di testimone che segnerebbe la dinastia James. Per ragioni d’età, Bronny James potrebbe essere scelto al Draft NBA del 2024: per papà LeBron vorrebbe dire essere ancora in campo a 40 anni. Vista la resa, la costanza (e il metabolismo, direbbe qualcuno), un traguardo alla portata del miglior giocatore di pallacanestro al mondo.

 

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