“La lavagna è degli allenatori, la partita è dei giocatori”. Il mantra è di Roberto Martinez, ct catalano del Belgio, prima outsider della Francia a Euro2020. Secco e condivisibile in senso assoluto ma vale anche per i grandi tornei? Non sempre. Basti pensare alle ultime edizioni di Mondiali ed Europei e al peso enorme che hanno avuto Lippi, Aragones, Fernando Santos e Deschamps nei trionfi delle loro selezioni. Ecco allora curiosità e ambizioni di cinque ct che, a diversi livelli, in questi Europei si giocano una “parte della” (o addirittura “tutta”) la loro carriera.

  1. ROBERTO MARTINEZ (BELGIO) – Compirà 48 anni due giorni dopo la finale del torneo: festeggerà tra fiumi di birra sulla via del ritorno da Londra a Bruxelles o si dovrà ritirare a Waterloo, dove vive in spregio della fama della località del Brabante-Vallone, associata in eterno al più grande fallimento della carriera di Napoleone? Raccontano peraltro i libri di storia che in quella battaglia di 206 anni fa, uno degli errori principali fu circondarsi di collaboratori non all’altezza. Sarà (anche) per questo che Martinez ha richiamato Thierry Henry, suo assistente già ai Mondiali del 2018. Se quello, per la generazione d’oro del Belgio, era “l’ultimo ballo”, questo sembra “l’ultimissimo”. Almeno per il blocco principale della rosa, che ha l’età media più alta tra della rassegna. Martinez, catalano che a 16 anni si è trasferito a Saragozza, a 21 in Inghilterra e a 44 in Belgio, si è conquistato la credibilità del gruppo con scelte decise, come l’esclusione di Nainggolan per la campagna di Russia. Le sue origini, lontane dalle frizioni tra fiamminghi e valloni, lo hanno aiutato a trovare l’equilibrio ideale nello spogliatoio. Anche senza Vincent “Obama” Kompany, leader spirituale tre anni fa, il Belgio sembra finalmente pronto per scrivere la storia. E per trasformare Waterloo in terra di festeggiamenti…
  1. FRANCO FODA (AUSTRIA) – Un tedesco di padre italiano, con una carriera limitata a due club: Sturm Graz, con cui ha vinto un campionato, e Kaiserslautern in 2.Bundesliga. Allena una nazionale reduce da decenni di grigiore. L’Austria non vince una partita in un grande torneo da Italia 90 (2-1 agli USA) e non si qualifica alla seconda fase addirittura dal 1982. Sotto la sua guida ha conquistato la promozione in Lega A di Nations League, comandando un girone tutt’altro che semplice davanti a Norvegia, Romania e Irlanda del Nord. Ma il ko di fine marzo contro la Danimarca (0-4, crollo nel secondo tempo) lo ha addirittura esposto a voci di esonero, sull’onda di critiche mai del tutto sopite per lo stile di gioco poco propositivo. In un’intervista a World Soccer, Foda ha ribadito la sua filosofia, ricordando che tra le nazionali europee “solo Spagna e Italia concedono meno passaggi di noi agli avversari nella loro metà campo”. Pressing (e testa) alti, insomma. In attesa del verdetto del campo, che non tarderà ad arrivare: la prima partita, contro la Nord Macedonia, sarà già decisiva per sognare gli ottavi, in un girone tra i più morbidi, completato da Olanda e Ucraina.

  2. GARETH SOUTHGATE (INGHILTERRA) – Sono passati 25 anni ma “Football’s coming home” è ancora la colonna sonora che accompagna le imprese (ma soprattutto i sogni) della nazionale dei 3 Leoni.
    Wembley torna capitale del calcio europeo e lui può chiudere il cerchio, cancellando con un trionfo il rigore fallito contro la Germania nella serie che decise la semifinale di EURO96. Ne ha fatta di strada da allora, passando da Middlesborugh, dove prima è stato il capitano della squadra finalista di Coppa UEFA 2006 contro il Siviglia e poi ha cominciato la carriera da manager. Ai Mondiali 2018 ha portato l’Inghilterra in semifinale dopo 28 anni, focalizzandosi sull’analisi del campo e isolando il gruppo dal gossip su WAGS e altre amenità. Tre anni dopo, senza il disperso Dele Alli ma con tanti talenti in rampa di lancio o sbocciati a scoppio ritardato (Jack Grealish) si ripresenta con basi più solide per sognare e con gli stessi dubbi: affidabilità del portiere Pickford e tenuta atletica di calciatori alla soglia delle 60 presenze stagionali. E con i boo al Black Lives Matter che nelle due amichevoli di preparazione, proprio a Middlsebrough, hanno allarmato i media e scosso l’ambiente. La sua linea, una volta di più, è stata chiara: “I ragazzi si inginocchiano perché ci credono e continueranno a farlo. Non parlerò più di questo tema fino alla fine degli Europei, vogliamo concentrarci solo sul campo”. Quel cerchio da completare, 25 anni dopo, non ammette distrazioni.

  3. STEVE CLARKE (SCOZIA) – Ex giocatore del Chelsea anni ’80 e ‘90, si è formato in panchina al fianco di due manager molto diversi tra loro: José Mourinho al Chelsea e Kenny Dalglish al Liverpool. E ha finalmente riportato la Scozia alla fase finale di un grande torneo, oltre 20 anni dopo l’avventura a Francia 98, chiusa al primo turno anche a causa di una congiuntura astrale avversa, culminata nelle due autoreti decisive contro il Brasile. Il portiere Marshall, poco più di 50 presenze in Premier League e quasi 450 in Championship in carriera, con la sua parata decisiva ai rigori nella finale playoff contro la Serbia è diventato il simbolo della rinascita di una nazionale costruita sul talento fisico-tecnico del terzino del Liverpool, Andy Robertson, e su quello tecnico-tattico del jolly del Manchester United, Scott McTominay. Le due partite a Glasgow contro Repubblica Ceca e Croazia e il derby di Wembley contro l’Inghilterra racchiudono tutto il fascino di una selezione amata ben oltre i suoi confini per la generosità dei suoi interpreti, le caratteristiche originali di alcuni totem del passato (Mo Johnstone, Ally McCoist, Gordon Strachan) e la giovialità dei suoi tifosi, la Tartan Army. Con questi presupposti, il classico “comunque vada sarà un successo” rischia di limitare le aspettative e le speranze di un popolo che sogna legittimamente gli ottavi di finale.

  4. LUIS ENRIQUE (SPAGNA) – La sua storia personale e famigliare ha commosso il mondo del calcio e non solo. A giugno 2019 aveva lasciato formalmente l’incarico che gli era stato assegnato dopo i Mondiali 2018, per stare vicino alla famiglia nel periodo della malattia della figlia Xana di 9 anni, scomparsa il 28 agosto 2019 a causa di un tumore osseo contro cui ha combattuto per 5 mesi. La moglie Elena e gli altri due figli (già maggiorenni) Pacho e Sira lo hanno sostenuto nella scelta di tornare a guidare la Roja, che ha causato la rottura del lungo rapporto personale e professionale con l’ex vice Robert Moreno, che ne aveva raccolto l’eredità dopo l’improvviso addio.
    Nel 2020 Lucho è tornato con le stesse convinzioni che lo hanno portato spesso a scontrarsi con stampa (e talvolta giocatori) a Roma come al Barcellona, condotto però trionfalmente al Triplete 2015 e a 9 titoli in 3 anni. Una galleria di trofei che nel 2015 gli valse anche il titolo di allenatore dell’anno FIFA, premio che peraltro non andò a ritirare. Fedele alle sue regole sacre, tra cui niente cellulari a tavola né interviste personalizzate, arriva a EURO2020 dopo scelte drastiche (la rinuncia al claudicante Sergio Ramos) e per buona parte incomprensibili (a casa Jesus Navas, miglior terzino destro della Liga, e Nacho, preziosissimo jolly difensivo del Real Madrid). Allergico al compromesso, anche stavolta trionferà o affonderà con la sua fiera, incrollabile ideologia.