Un’altra estate qui…! Più disinvolta e… Mille avventure che non finiranno se per quegli amori esisteranno nuove spiagge… Per descrivere questo calcio liquido, non serve elevarsi alle massime sociologiche di Baumann: basta ricorrere alla creatività di Renato Zero, con le sue spiagge che rappresentano gli stadi e le città che i nuovi allenatori andranno a popolare. La Serie A è appena finita ma sembra già un’eternità: delle prime 8, solo Milan e Atalanta hanno mantenuto la stessa guida tecnica. Vale quindi la pena fissare un po’ di punti a futura memoria su questi 9 mesi vissuti velocemente e, in molti casi, pericolosamente. Per non dimenticare (cit.).

  1. Conte – È venuto, ha vinto, ha incassato (ricchi premi e cotillon) e se n’è andato. A metà dell’opera. Vincendo in patria e fallendo in Europa. All’Inter come alla Juve e al Chelsea. Detestato dagli avversari, idolatrato dai suoi adepti. Fedele (solo) a se stesso, strepitoso contropiedista, in campo (ma meglio non farglielo notare) e fuori.
    È tornato in una Serie A affascinata da Sarri e Fonseca, poi da De Zerbi e Pirlo; se ne va nei giorni in cui il calcio italiano rivisitato in chiave (pre)moderna torna a essere la filosofia dominante, con l’Allegri bis alla Juve, Simone Inzaghi all’Inter e Mourinho alla Roma. L’Inter di Conte resterà un pezzo unico per stile, cinismo e intensità. Nessun grande club in Europa gioca con due punte, pochi avrebbero lasciato Eriksen ai margini per così tanto tempo, non tutti si sono ripresi così bene dalle delusioni europee. Una squadra fatta e finita, in senso metaforico e probabilmente anche letterale, perché dal mercato arriveranno cambiamenti e l’impostazione non sarà più la stessa. E Inzaghi dovrà gestire nuove risorse, non necessariamente migliori.

  2. Kessie – È lui la mente che Pioli (applausi!) ha armato in campo per scatenare il suo Milan giovane e ambizioso, inizialmente scanzonato e poi bloccato dalla pressione. Sembrava il ciclista che nel giorno del Mondiali parte da outsider, lasciato scappare dai favoriti che poi, a forza di pensare “tanto rallenta, tanto lo prendiamo”, finiscono per guardarlo mentre taglia il traguardo a braccia alzate. Non è andata così, anzi: il finale è stato adrenalina pura, con l’incubo della beffa all’ultima curva come già nel 2018/19 (vittoria a Ferrara e Inter salvata da D’Ambrosio sulla sirena contro l’Empoli). L’ivoriano che iniziò a Cesena da difensore centrale si è preso sulle spalle il peso della qualificazione, trasformando rigori in serie con il ghiaccio nelle vene. Presidente-giocatore davanti agli occhi di Ibrahimovic, capitano a lungo non-giocatore (19 presenze in campionato, esattamente la metà del totale).

  3. Spezia – Il vero miracolo Italiano. Ha iniziato la stagione con un gruppo di debuttanti in Serie A, allenatore compreso, senza stadio e in ritardo rispetto alle altre.
    Quanta strada hanno fatto le Aquile da quell’1-4 del debutto contro il Sassuolo, nello stadio di riserva di Cesena, con pochi privilegiati tifosi presenti in tribuna quando ancora era possibile. Un percorso splendido, in cui lo Spezia ha: battuto Napoli, Milan (nel momento migliore della sua stagione) e Sassuolo; pareggiato con Inter, Atalanta e Roma; spaventato la Lazio; eliminato la Roma in Coppa Italia. Il tutto, particolare non banale, nel mezzo di un passaggio di proprietà e con lo sbarco in Italia di una dirigenza straniera. Capolavoro di programmazione, abnegazione e metodo. Premio a una tifoseria tra le più calde d’Italia, che meritava di gustarsi un altro anno di Serie A, spingendo i propri idoli nella tana del “Picco”.

  4. Belotti – Capitano coraggioso e a volte, per le energie che disperde lontano dalla porta, fin troppo generoso. Simbolo del Torino che vorrebbe ma non può, tremendismo a oltranza (suo) e a intermittenza (della squadra, direttamente proporzionale ai progetti ondivaghi del club). Dopo l’anno di gloria 16/17 non è più andato oltre i 16 gol a campionato. L’Europeo alle porte può spalancare ogni scenario: si imporrà a livello internazionale? Mostrerà di poter giocare “con” e “per” la squadra in partite così importanti? Poi, a fine torneo, si porrà la madre di tutte le domande: restare al Toro o cercare il salto di qualità? In attesa delle risposte, una cosa è certa: se andrà via, non potrà essere tacciato di alto tradimento. Perché servito la causa torinista per 6 anni con senso di appartenenza e dedizione e un upgrade della sua carriera sarebbe più che legittimo.

  5. D’Aversa – La sua vicenda resterà una tra le più simboliche di questa stagione. Aveva lasciato da eroe al termine di quella precedente, dopo due promozioni consecutive e altrettante salvezze, infastidito dalle critiche al suo gioco verticale ed essenziale, “palla a loro e giochiamo noi” (semicit.). È tornato sull’onda della delusione cittadina e societaria dopo il rapido fallimento di Liverani, in forza di un contratto ancora esistente. Ma ormai la magia era spenta e il lungo filo che aveva accompagnato il suo quadriennio si era spezzato irrimediabilmente. Tra giocatori arrugginiti (Gervinho) ammaccati (Inglese) e troppo giovani, l’impresa è parsa da subito impossibile.
    A Enzo Maresca, brillante in panchina come lo era in campo e reduce dall’esperienza ultra-formativa alla corte di Pep con l’U23 del City, il compito di ridare entusiasmo e credibilità al progetto calcistico di una delle città più signorili d’Italia.